trivelle

di Pietro Dommarco

www.wired.it

A fine dicembre dello scorso anno, Assorinnovabili ha tracciato un bilancio tra i costi e i benefici delle energie rinnovabili. Che merita di essere tenuto a mente. Partendo da un assunto: "Il costo dell'energia rinnovabile è già più basso del costo dell'energia prodotta con combustibili fossili se, come correttamente si dovrebbe, si considerassero anche le esternalità negative [...]".

Per esternalità negative l'Associazione italiana dei produttori, dell'industria e dei servizi per le energie rinnovabili intende i "cambiamenti climatici, costi sanitari e ambientali". Il bilancio tra i costi e i benefici da fonti rinnovabili, attualizzato al 2015, ammonta invece ad oltre 29 miliardi di euro, con potenzialità di crescita fino a 104 miliardi di euro. Una prospettiva, questa, che dovrebbe far riflettere sulla politica adottata dagli ultimi governi del Paese. Sbilanciata verso l'incentivazione delle fonti fossili, la modifica di norme del settore upstream in nome della semplificazione delle autorizzazioni, gli investimenti su riserve esauribili in breve tempo e non in grandissime quantità.

Su questo punto è intervenuto, con un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, Leonardo Maugeri (già direttore Strategie e Sviluppo di Eni). Considerato tra i massimi esperti mondiali di energia, l'ex manager di Eni sostiene che il nostro Paese "ha una dotazione molto modesta di idrocarburi", che "le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell'Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l'Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importanti".

Ma c'è di più, perché Maugeri aggiunge che "dal punto di vista della sicurezza energetica, almeno nel caso del petrolio ha poco senso affannarsi nello sfruttamento di risorse interne poiché il mercato internazionale è aperto e ricco di fornitori e si può tranquillamente coprire il fabbisogno interno con importazioni". Alla luce di questa analisi, perché al contrario ci affanniamo a sostenere la produzione di fonti fossili a scapito di quelle rinnovabili? Chi ci guadagna? Certamente le compagnie petrolifere. Nel nostro Paese, infatti, vige un regime di royalties particolarmente favorevole per le società, dove anche quelle piccole - con capitali sociali irrisori o ragione sociale estera - possono operare, estrarre e in alcuni casi rimpatriare i profitti assoggettandoli a tassazioni favorevoli. Le royalties rappresentano le aliquote sulle produzioni di idrocarburi che le società devono corrispondere alle pubbliche amministrazioni. Stato, Regioni e Comuni.

Ho affrontato l'argomento relativo a queste forme compensative - confrontandole con quelle di altri Stati produttori - in Trivelle d'Italia (Altraeconomia edizioni 2012). L'ordinamento normativo italiano trova fondamento nel Decreto legislativo n.625 del 25 novembre 1996, e da altre disposizioni integrative introdotte nel 2009, nel 2012 e nel 2014 e consente a ciascun concessionario - ossia chi riceve la concessione, quindi la compagnia - di provvedere "alla corretta misurazione delle produzioni, effettua autonomamente i calcoli delle royalties dovute, esegue le ripartizioni tra Stato, Regioni e Comuni ed effettua i versamenti relativi". Sarà poi l'Unmig - l'Ufficio minerario nazionale facente capo al ministero dello Sviluppo Economico - ad effettuare controlli a campione, una tantum, al fine di verificare la correttezza dei dati trasmessi dai concessionari.

Le royalties sono pari al 10% per l'estrazione di greggio e gas in terraferma, al 10% per l'estrazione di gas a mare e al 7% per l'estrazione di greggio a mare. Le aliquote per la terraferma sono comprensive di un 3% destinato ad un fondo di coesione sociale. Quelle per il mare, invece, comprendono un 3% per l'ambiente e la sicurezza. L'attuale ripartizione prevede che per le produzioni di idrocarburi in terraferma il 55% vada alle Regioni, il 30% allo Stato e il 15% ai Comuni, che pur essendo di fatto i più colpiti dall'impatto ambientale - il cui costo non viene mai quantificato - incassano di meno. Per le estrazioni in mare la ripartizione prevede un 45% allo Stato e un 55% alle Regioni. Da quest'ultima ripartizione i Comuni restano fuori.

Ma non tutti gli operatori versano le royalties. Attualmente su 53 società titolari di permessi di ricerca e concessioni di coltivazione - secondo gli ultimi dati forniti dal ministero allo Sviluppo economico - solo 8 pagano le aliquote. Il resto o non produce, o beneficia soprattutto del particolare regime della franchigia. Dal francese antico "franchise", franco, libero, esente da dazi. Le compagnie petrolifere per effetto della franchigia sono esentate dal pagamento di royalties sulle prime 20 mila tonnellate di greggio estratto in terraferma, sulle prime 50 mila tonnellate di greggio estratto in mare, sui primi 25 milioni di metri cubi di gas estratto in terraferma e sui primi 80 milioni di metri cubi di gas estratto in mare. Tradotto in milioni di euro, approssimativamente, il risparmio per ogni anno di produzione può variare dai 7 ai 20 milioni di euro.

Non c'è risparmio, invece, sui canoni dovuti allo Stato per i titoli minerari conferiti per la ricerca e la coltivazione di idrocarburi. Per il permesso di prospezione gli operatori versano nelle casse dello Stato 3,59 euro all'anno per chilometri quadrato assegnato, per il permesso di ricerca gli operatori versano 7,18 € all'anno per chilometro quadrato attribuito, per le concessioni di coltivazione infine la quota ammonta a 57,47 € all'anno per chilometro quadrato. Sì, da pochi euro a qualche decina di euro, rivalutati annualmente secondo l'indice Istat dei prezzi al consumo.