bandiera UE

La commissione europea ci ha recentemente imposto di correggere la nostra legge di bilancio per il 2017 tagliando circa altri 4 miliardi di euro.


All'interno della logica dell'austerità impostaci da Bruxelles (su pressione tedesca) questo intervento ha certamente un senso: il nostro debito pubblico continua a crescere e quindi il risanamento dei conti dello Stato non fa che allontanarsi.

Purtroppo, e lo vediamo in Grecia, l'obbligo dell'austerità, per quanto azione apparentemente sanificatrice, anziché aiutare il miglioramento dei conti lo sta peggiorando. Se il prodotto interno lordo non cresce, non si creano le risorse necessarie per ridurre il debito. A meno che non si riesca a tagliare le spese.

A questo proposito, però, nascono due problemi. Il primo è che ogni riduzione della spesa di uno Stato influisce negativamente sul Pil totale e ciò, almeno a fini statistici, peggiora i conti. Il secondo, che anche qualora si volesse procedere in quella direzione occorrerebbe, per poterlo fare, un Governo politicamente molto forte per superare le contestazioni e gli ostacoli che ne nascerebbero. Fino ad ora, nessun esecutivo italiano ha goduto di sufficiente sostegno politico e sociale per riuscire ad imporre tagli significativi. I fallimenti di tutti i Commissari nominati per le "spending review" lo dimostrano.

Considerato che in una democrazia si vota praticamente una volta l'anno e che ogni politico pensa ai voti che potrebbe raccogliere o perdere, oltre ad una forte maggioranza occorrerebbero coraggio e lungimiranza. Purtroppo anche queste due qualità da noi sembrano latitanti e la sconfitta dell'ultimo Governo nel recente referendum ha dimostrato, una volta di più, che l'italiano medio, tanto rivoluzionario a parole, in fin dei conti è sempre un conservatore.

In realtà, il vero problema della nostra economia non sta nella riduzione delle spese, per quanto qualche taglio sarebbe certo benvenuto. Risiede piuttosto nella mancanza di investimenti sia essi pubblici o privati. Il settore pubblico è vincolato dai parametri di Maastricht mentre il privato, nella maggior parte dei casi, non vede i motivi per mettere altri soldi all'interno del nostro Paese. Per convincere un privato a investire è necessario che abbia fiducia nel futuro e veda le condizioni che gli consentono di ipotizzare un lauto guadagno di ritorno.

Anche misure come il "job's act" si sono dimostrate dei puri palliativi, per di più limitati nel tempo. In Italia oggi non è il denaro che manca, e lo si vede dal successo costante dei fondi di investimento e dai risparmi globali accumulati. Nemmeno l'alto costo del lavoro costituisce il freno alle nostre imprese: nelle aziende manifatturiere il lavoro copre al massimo il 25% del costo finale di un singolo prodotto e, anche se molti altri Paesi pagano meno la manodopera, l'impatto differenziale sul costo unitario tocca solo quella percentuale. È pur sempre una differenza ma non così determinante da penalizzare in modo irrimediabile le nostre aziende, tanto è vero che le esportazioni, nonostante tutto, continuano a crescere.

Ciò che fa la differenza e che scoraggia gli investimenti è soprattutto altro e, nell'ordine: l'incertezza del diritto che colpisce gli onesti a favore di chi è scorretto; l'alta tassazione che, di là dalle cifre ufficiali che (tra l'altro) non considerano l'evasione globale, è la seconda al mondo dopo la Danimarca; la inefficienza della burocrazia che impone vincoli e passaggi che finiscono con il diventare pesantemente onerosi. Purtroppo, tutti questi tre motivi non sono facilmente superabili. Anche in questo caso, occorrerebbero esecutivi forti e quindi capaci di infischiarsene delle prevedibili reazioni corporative. E poi, i tempi necessari sarebbero lunghi.

L'incertezza del diritto deriva da una pletora di leggi enorme e da una Magistratura autoreferenziale, lenta, spesso inefficiente e reattiva ad ogni tentativo di riforma.

Ridurre la tassazione è stato il programma di molti governi recenti ma, se non contiamo le pure dichiarazioni di principio, non e' mai stata realizzata. Abbassare le aliquote, che sia verso la produzione o verso i consumatori, è possibile soltanto se precedentemente, o contemporaneamente, siano stati ridotti i costi ma, come si è detto sopra, ciò sembra impossibile.

Quanto alla burocrazia, anche senza considerare il malcostume abbastanza diffuso nella categoria, ciò che manca alla maggioranza è il senso dello Stato e la consapevolezza di dover essere totalmente al servizio del pubblico. La complicatezza delle leggi e l'impunità per i "lazzaroni" non aiuta di certo a creare quel senso del dovere che dovrebbe motivare ogni pubblico funzionario. Nel migliore dei casi, anche escludendo la malafede, non fare significa non correre rischi. Senza contare che una cultura di anti-impresa e molta demagogia spingono alcuni Enti (penso a qualche ASL in particolare) a considerare l'imprenditore soltanto uno sfruttatore da punire.

Da questo panorama, non certo edificante, è oggettivamente difficile uscire. Eppure, o accettiamo che il nostro standard di vita vada in rovina o, in qualche modo, lo si dovrà fare. Non ha senso sperare che siano altri a toglierci le castagne dal fuoco, tantomeno l'Europa che, anzi, sembra volercene aggiungere. Qualcuno spera che una possibile ripresa dell'economia internazionale porti anche noi fuori dalla palude. Anche questa è una illusione e la dimostrazione sta nel fatto che, nonostante il perdurare dei problemi economici mondiali, altri Paesi hanno saputo già ritornare a crescere affrontando concretamente i loro problemi strutturali mentre noi siamo alle prese con gli zero virgola qualcosa.

Ciò che serve è la consapevolezza che, se rinascita ci sarà, essa dipenderà solo da noi e passerà dalla capacità di marginalizzare gli interessi corporativi, dal ridare valore sociale a concetti quale l'onestà e il rispetto delle leggi, da un recupero del senso di identità nazionale, e, soprattutto, dal ricordare che ogni cittadino, prima dei diritti, deve ricordare di avere dei doveri.