Era questo il nome che i soldati tedeschi davano, durante la Grande Guerra Patriottica, alle donne russe che combattevano al fronte. Una leggenda che ancora oggi, settant'anni dopo, continua a essere tramandata di generazione in generazione. Ce lo raccontano alcune protagoniste di allora.
Rosa Ivanova (la prima in basso a sinistra) al lavoro nell'ospedale di Leningrado (Foto: archivio personale)
Molti anni dopo, davanti al rombo sordo di un aereo in lontananza, avrebbe continuato a chinare il capo. Come a volersi coprire dalla pioggia di bombe che il nemico, 70 anni fa, scaricava giorno e notte sulla città. Oggi, però, sopra la sua casa c'è il cielo di Milano. E non risuonano più le sirene di una Leningrado sotto assedio. Alla fine di quell'estate del 1941,
quando i tedeschi raggiunsero la Neva segnando l'inizio del lungo assedio, Rosa Ivanova aveva da poco compiuto 17 anni, e per lei
l'inizio della guerra aveva l'odore dello zucchero bruciato: quello stesso zucchero che si scioglieva nei magazzini del deposito di cibo colpito dalle prime granate. Da lì in poi, seguirono solamente la fame e la disperazione. "Arrivò l'inverno. E le scorte iniziarono a scarseggiare. Anche l'acqua diventò difficile da recuperare e si cominciò a bere quella del fiume, prelevata oltre lo spesso strato di ghiaccio che ricopriva i canali". A dare voce a quei ricordi è la figlia di Rosa, Olga, oggi presidente della Comunità russa di Milano e Lombardia. L'anziana madre, medico in pensione, l'ha raggiunta in Italia due anni fa, dopo la morte del marito. "Ora viviamo insieme. L'Italia è diventata la nostra seconda casa". Un disegno bizzarro del destino, verrebbe da pensare, visto che proprio l'Italia, 70 anni fa, puntava la bocca dei propri cannoni contro l'esercito sovietico. "Nonostante in guerra combattesse sul fronte nemico, l'Italia oggi non viene giudicata così severamente dai russi: mia mamma, che non parla la lingua e guarda solo la tv russa, dice di aver sempre nutrito simpatia verso questo paese, la sua gente e la sua musica".